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martedì 28 maggio 2013

Morgan (Thomas Hunt)

Morgan, la Drosophila e i geni!


Il genere Drosophila fu classificato all’inizio del XIX secolo; la specie più nota, Drosophila melanogaster, venne descritta verso la metà del secolo ed è probabilmente originaria delle regioni tropicali. Quasi sicuramente giunse in Europa e negli Stati Uniti in seguito all’importazione delle banane.
Il piccolo insetto comparve fra il 1900 ed il 1901 presso l’Università di Hardward, dove C.W.Woodworth vi si dedicò e suggerì a W. Castle che si trattava di un organismo particolarmente adatto per studi in campo genetico.
Castle, con un gruppo di collaboratori, avviò così una ricerca sugli effetti degli incroci ripetuti fra i moscerini.
L’utilizzo in laboratorio di questo insetto, ben presto si rivelò effettivamente adatto alle ricerche di genetica, in quanto l’allevamento risultava molto economico, richiedeva poco spazio (in un primo tempo i moscerini vennero addirittura allevati nelle bottiglie vuote del latte) e soprattutto era possibile ottenere numerosi incroci in breve tempo (da 2 a 3 settimane).
Intorno al 1908, anche Morgan cominciò a lavorare su Drosophila; infatti, in un primo tempo, aveva condotto le sue ricerche sui ratti, ma ben presto li abbandonò a causa dell’elevato costo, dei cicli riproduttivi troppo lunghi e della facilità con cui venivano colpiti da infezioni. Fu probabilmente Frank Lutz, un genetista della Stazione per l’Evoluzione Sperimentale di Washington a Cold Spring Harbor e collaboratore di Castle, a presentargli lo studio del moscerino.
Egli era, però, molto restio ad accettare l’ipotesi che i cromosomi fossero alla base dell’eredità, ed infatti, in accordo con la posizione di Driesch (con cui mantenne sempre un contatto epistolare), era contrario all’idea di preformismo sostenuta con fervore da Wilson.
Scriveva Morgan nel 1909: "Dato che il numero di cromosomi è relativamente piccolo ed i caratteri dell’individuo sono molto numerosi, ne segue in teoria, che molti caratteri dovrebbero mendelizzare insieme. Confermano i fatti questo requisito dell’ipotesi? A me sembra di no.[…] Se i caratteri mendeliani sono dovuti alla presenza o all’assenza di uno specifico cromosoma, come assume l’ipotesi di Sutton (*), come possiamo spiegare il fatto che i tessuti e gli organi di un animale differiscono uno dall’altro mentre contengono lo stesso complesso cromosomico?"(**)
(*) Walter S. Sutton (1877 -1916 ) fu allievo di Wilson; studiando i cromosomi, nel tentativo di spiegare la segregazione degli alleli, si accorse che il comportamento dei cromosomi durante la meiosi è parallelo a quello dei caratteri mendeliani.
(**) Cit. da Bernardino Fantini, La Genetica Classica ed. Loescher Torino,1979

 La prima importante scoperta
Una risposta a queste domande si presentò circa sei mesi dopo, proprio durante le ricerche condotte su Drosophila.
Morgan stava cercando delle nuove "razze", cioè mutazioni "alla De Vries".

Per condurre questo tipo di ricerca, i moscerini venivano sottoposti ad agenti mutageni (raggi X, sali, onde radio), ma in un primo tempo i risultati non furono quelli sperati.
Nel 1910, tuttavia, comparve un unico individuo maschio con gli occhi bianchi in una popolazione interamente costituita da moscerini con gli occhi rossi.
Morgan decise di studiare questa variante e fece accoppiare il maschio "occhi bianchi" con le femmine "occhi rossi".
Nella prima generazione filiale (F1) tutti i moscerini avevano gli occhi rossi, ma nella seconda (F2), comparve il classico rapporto mendeliano 3 rossi:1 bianco. Questo indicava chiaramente che il carattere "occhi bianchi" doveva essere un carattere mendeliano recessivo, ma c’era un aspetto particolare: tutti gli individui della F2 che avevano gli occhi bianchi erano maschi.
Realizzando poi l’incrocio fra un maschio con gli occhi bianchi ed una femmina della F1, si otteneva di nuovo il rapporto previsto da Mendel, cioè 1 bianco: 1 rosso, ma questa volta con la stessa distribuzione nei due sessi.
Per spiegare questi risultati, Morgan ipotizzò l’esistenza di un fattore, portatore del colore bianco degli occhi, che doveva trovarsi negli spermatozoi e lo indicò come W; inoltre, metà dei gameti maschili doveva portare un fattore X per il sesso e l’altra metà no. 
Il maschio con gli occhi bianchi doveva pertanto essere omozigote per W ed eterozigote per X, cioè WWX, producendo quindi due tipi di gameti: WX e X.
La femmina invece doveva essere portatrice per il fattore rosso R, omozigote per X e, quindi, avere genotipo RRXX, con conseguente produzione di gameti tutti uguali, del tipo RX.
Dal momento che "occhi rossi" domina su "occhi bianchi", gli individui della F1 (tutti RWXX) dovevano avere tutti gli occhi rossi, mentre nella F2 potevano nascere individui WWX, cioè maschi con gli occhi bianchi.
In accordo con questa ipotesi, i maschi con gli occhi rossi dovevano avere un genotipo RRX, ma i dati non confermarono le previsioni: incrociando un maschio con gli occhi rossi con una femmina con gli occhi bianchi, si ottennero tutti maschi eterozigoti per R e tutte femmine omozigoti per R.
Il problema era quindi il seguente: come mai nelle popolazioni non comparivano tante femmine con gli occhi bianchi quante ci si aspetta di trovarne?
 Una nuova ipotesi ed un’ulteriore conferma

Per risolvere il problema, Morgan introdusse un’ipotesi ulteriore: il fattore R deve essere legato inscindibilmente con il fattore per il sesso, per cui le femmine (che hanno due X) devono essere RRXX, mentre i maschi (che ne hanno una sola) devono essere RWX.
La nascita del maschio con gli occhi bianchi doveva essere quindi causata dagli agenti mutageni che avevano modificato, in un uovo, RX in WX, portando ad un individuo WWX.
Per maggiore semplicità nella simbologia, Morgan ( in accordo con Bateson), ipotizzò che il colore bianco degli occhi fosse provocato dall’assenza del fattore per il colore: WX diventa quindi OX.
In conclusione Morgan ammise che R e X dovevano essere combinati e che non potevano esistere indipendentemente l’uno dall’altro.
Nonostante questi risultati, Morgan rimaneva piuttosto scettico nei confronti del nesso cromosomi-ereditarietà e continuava parlare di un fattore X piuttosto che di un cromosoma X, in quanto reputava il differenziamento sessuale un fenomeno troppo complesso per essere legato ad una piccola struttura come quella del cromosoma.
Ad incrementare le difficoltà c’erano anche le scoperte genetiche condotte da Bateson e Punnett su Abraxas, che dimostravano la presenza dell’eterozigosi nelle femmine e non nei maschi: era esattamente l’opposto di ciò che era emerso dalle ricerche su Drosophila.
Nello stesso anno, però, Morgan trovò altre due mutazioni legate al sesso ("corpo giallo" e "ali miniatura"); questo rafforzò l’idea che dovessero esistere dei fattori per questi caratteri sul cromosoma X.

1) Situazione selvatica



3) Incrocio tra femmina con occhi rossi (linea pura) e maschio con occhi bianchi

4) Incrocio tra un maschio con occhi bianchi ed una femmina F1

5) Eredità criss-cross

Il Drosophila Group

Il passo successivo consisteva nel dimostrare che i tre caratteri legati al sesso si trasmettevano insieme, senza mai separarsi.
Tuttavia, nei successivi esperimenti, Morgan si accorse che in alcuni casi avveniva una ricombinazione di questi caratteri e che, quindi, non si poteva parlare di associazione completa.
Ormai appassionato e deciso ad arrivare in fondo, Morgan costituì un piccolo gruppo di scienziati, che portò avanti la ricerca con grande passione.
Il piccolo laboratorio presso la Columbia University, soprannominato "la stanza delle mosche", era una stanzina piena di tavoli, microscopi e bottiglie di coltura dei moscerini.
Qui cominciarono a lavorare Calvin B. Bridges e Alfred H. Sturtevant. Ospite frequente era poi Hermann J. Muller, ancora studente, che mantenne sempre un rapporto conflittuale di odio e amore nei confronti degli altri ricercatori. Era nato il "Drosophila Group".
Il laboratorio era frequentato da ricercatori, studenti, interni post-dottorato e diversi visitatori.
Proprio da qui le idee sarebbero comparse una dopo l’altra con una carica esplosiva, e proprio qui gli esperimenti si sarebbero susseguiti in modo continuo, portando ad una serie di scoperte, ipotesi e teorie.
Il lavoro era condotto attraverso una stretta collaborazione fra tutti i membri del gruppo ed ogni giorno regnava l’entusiasmo, non senza senso critico e apertura mentale, una rara qualità.
Gli scambi erano continui e, ogni volta che nasceva una nuova idea o si otteneva un nuovo risultato, la discussione interessava tutto il gruppo ed era condotta con un tale fervore da dimenticare chi per primo vi era giunto.
Il primo aspetto da verificare era il legame fra la distanza dei fattori sul cromosoma ed il grado di associazione dei caratteri.
Durante un’intensa notte di lavoro, Sturtevant costruì un modello che mette in relazione la frequenza dei cross overs nel cromosoma con la distanza relativa dei fattori sul cromosoma stesso; anzi, la frequenza dei cross overs permette di calcolare la distanza dei due fattori sul cromosoma.
Il modello realizzato da Sturtevant permise, in pochi anni, di giungere a definire particolari associazioni dei geni anche sugli altri tre cromosomi di Drosophila (detti autosomi e presenti in duplice copia, a differenza del cromosoma X).
Nel 1915, Morgan, Bridges, Sturtevant e Muller pubblicarono "The Mechanism of Mendelian Heredity", che proponeva gli studi condotti su Drosophila come una chiave di lettura dei sistemi genetici e che poneva le basi per la mappatura dei geni.
Questi risultati, però, dovevano ancora sfidare la critica della comunità scientifica: ci vollero altri dieci anni, caratterizzati da continue scoperte, ma anche da polemiche, perché queste scoperte trovassero il consenso generale dei genetisti.
Il lavoro del "Drosophila Group" proseguì per circa venti anni nel laboratorio della Columbia University e da lì si propagò nelle università del resto del mondo, dove si continuavano a trovare nuovi mutanti.

Un po’ per volta vennero definite le leggi della genetica classica e si giunse al modello della "collana di perle" secondo cui i geni si dispongono sui cromosomi uno dopo l’altro come le perle sul filo di una collana.

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